INVIDIA E GELOSIA

Nasce dall’invidia patologica per i successi universitari di Giulia l’ultimo femminicidio conclusosi con l’assassinio della povera Giulia, 22 anni, laureanda in ingegneria, professione considerata ‘maschile’ per la frequentazioni di cantieri e luoghi ‘non adatti a una ragazza’. C’è chi ha lavato col sangue l’onta generata dal sorpasso femminile in questa disciplina. Non voglio nemmeno immaginare la ridda di pregiudizi, sopraffazioni e critiche misogine. Una vita di sopraffazioni che potevano trovare soddisfazione in una laurea prerogativa del ‘campo avverso’ l’ ingegneria. Riusciremo noi maschietti ad abbandonare certi automatismi comportamentali, e le donne essere meno accondiscendenti e rispondere per le rime.

Invidia e gelosia hanno come dimensione di riferimento la dipendenza.

Si tratta di sentimenti umani comuni ma che hanno come oggetto non un’entità inanimata, come una sostanza d’abuso o, nel nascituro, d’uso, ma un essere vivente. Sono, cioè, dipendenze parassitarie da un altro da sé, più blasonato intellettualmente o più ricco materialmente, le cui qualità possono mettere in evidenza le carenze psicologiche di un altro. È invidiabile chi ha uno yacht, magari a vela; però, a cascata, il suo solo possesso prevede un’abilitazione nautica adeguata, altri con barche simili con cui confrontarsi, vacanze transoceaniche e amicizie conformi, fondamentalmente che non soffrano il mal di mare. E che possano gioire di un aperitivo in barca, uno sopra l’altro e senza vie di fuga oltre alla passerella di ingresso in porto. Non è l’ideale per un claustrofobico. Che comunque invidia il grasso armatore 78enne, non immaginando neppure la vita che conduce e cosa prevede il possesso di detto yacht. Un evidente stato di depersonalizzazione in cui tutto è possibile; la premessa è: si, ok, faccio parte del genere umano, quindi posso diventare un grasso signore con uno yacht smisurato, quando già prendere un traghetto mi irrita e non sopporto l’odore del mare. Desolante, però è un sentimento comune e parassitario, poiché fa riferimento a una vita altra ed evoca la dipendenza.

Quasi analoga è la gelosia, utile, a piccole dosi, a manifestare interesse per tutelare i gameti della coppia. Nei fatti, però, tutto può accadere vivendo assieme e il detto degli antichi mater semper certa pater unquam da grande spazio alla fantasia.

Non meraviglia che episodi cruenti nascano in questo clima, dove quello che viene messo in discussione è il prodotto primo dalla nascita: l’istinto di conservazione, la mamma.

Così la dipendenza che in una coppia è normale, diventa letale quando il legame si scioglie: l’attentato all’integrità dell’Io è così forte, da preferire la morte dell’altro a qualsiasi forma di ‘pace concordata’. Paradossalmente, chi con la sola presenza ’seda’ le ansie da istinto di conservazione indebolito, per le carenze psicologiche del soggetto, quando questa sedazione viene a cessare, solo col suo sacrificio si può ricreare la situazione ante quo, di angoscia ma senza quella possibilità di cura, attentatrice dell’Io quando viene a mancare. Ricostruendo la vicenda con la trasposizione nella psicopatologia, in particolare la malattia maniaco-depressiva, la depressione si innesta sulla fine della relazione, vissuta maniacalmente, che riusciva da sola a mitigare le punte di disagio esistenziale, creando quella dipendenza che sarà poi causa della tragedia omicida.

Considero il femminicidio un caso limite di dipendenza poiché ad esso si embricano gelosia e invidia, a loro volta due facce della stessa medaglia.

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