” Non abbiamo riscontrato un aumento dei tassi di suicidio in Inghilterra nei mesi successivi all'inizio del primo blocco nazionale nel 2020, nonostante le prove di maggiore angoscia. Tuttavia, si applicano una serie di avvertenze. Queste sono le prime cifre e potrebbero cambiare. Qualsiasi effetto della pandemia può variare in base al gruppo di popolazione o all'area geografica. L'uso di RTS in questo modo è nuovo ed è necessario un ulteriore sviluppo prima che possa fornire dati nazionali completi.”
Questo report pubblicato su Lancet nell’aprile 2021 e visibile qui, va commentato. Le rivelazioni sulle dinamiche psicologiche della posizione del sofferente mentale di fronte alla morte ancor più quando viene rappresentata in continuazione in tutti i modi possibili . La posizione ‘ideologica’ del suicida traballa alquanto: i posti migliori del suo parterre affettivo sono stati occupati, d’imperio, dalla morte rappresentata, non discussa o ragionata: bare, ospedali, reparti intasati, pietose storie di malati e infermieri distrutti. Un ventaglio depressivo, insopportabile in ambiti ben compensati ci si immagina che facciano precipitare situazioni già in bilico, invece no.
Se si escludono casi clamorosi, come quello del ministro delle finanze dell’Assia, che, si dice, non abbia retto alla paventata crisi economica che la pandemia avrebbe portato in termini di suicidi che si potrebbero supporre in una situazione come la pandemia e il suo portato patologico psico-sociale.
Chi è affezionato al tema della morte sembra abbia trovato esauditi, nella situazione attuale, gli aspetti inconsci tanatomani del suo vivere. Dico inconsci perché è mia convinzione che chi vuole farla finita con la vita e i suoi affanni non sia cosciente nel momento dell’acting. Questa convinzione è stata rafforzata dalla risposta di Nadia, una donna miracolosamente sopravvissuta a una defenestrazione dal 4° piano quando le domandai “Perché lo ha fatto? “Non lo so” mi rispose, un po’ smarrita. Un mancato suicidio. L’istinto di conservazione si palesa in molteplici situazioni nelle quotidiane attività umane, ma soprattutto nei momenti di malattia; un’epidemia che colpisce l’intero pianeta fa assumere una serie di comportamenti protettivi, anche quelli imposti, che evocano quel pensiero, ‘devo evitare la morte per asfissia’. Ma perché? Non è diversa, ci insegna la medicina legale, da un annegamento, da uno schiacciamento toracico o da un’impiccagione? o da un avvelenamento. Non è, a mio avviso, una questione ‘tecnica’. Il clima che si è vissuto nelle fasi più gravi e il modo in cui è stata rappresentata la morte sono riusciti a ‘occupare i posti davanti’ nel parterre del depresso con tendenze autolesive o del ciclotimico. O dell’isterico o delle (non poche) altre sindromi psichiatriche ad esito infausto.
La morte è il tema della malattia.. E tutti disegnano il proprio atteggiamento al comparire del tristo mietitore. La negazione è un luogo comune molto frequentato, con varie motivazioni, talune surrettizie, altre arroccate su posizioni tra il fake e l’immaginifico. Certo, è un confronto inevitabile. È arrivata. Può essere il tuo momento. Sei nel 16% per età, condizioni economiche, malattie concomitanti e…..le malattie concomitanti! Trascurate come d’uso e per sciatteria mentale, esse meritano, stavolta, una riflessione. La colpa, come sempre, torna come sentimento dominante: sigarette=morte. E questo si sapeva. Poi ci sono le mangiate, con bevute annesse. E vabbè, che ne abbiamo dalla vita? Forse vale la pena di riflettere su questo e mettere dei punti fermi, prima di trovarsi d’inverno in braghe di tela.
Pochi autori hanno fatto delle riflessioni su questo, tranne la rivista online Micro mega che ha ripreso un articolo postato sul blog Sidecar che affronta il tema della morte dal punto di vista lessicale, ma non sviluppa, a mio avviso, il tema[LMU3] . L’autore Marco D’Eramo parla di “scaramanzia” per spiegare il silenzio sulla morte, il tema con cui quotidianamente ci confrontiamo e che ha, per amore o per forza, cambiato il rapporto di ognuno con la morte. Stavolta è davvero improvvisa, inderogabile, definitiva. Ed è lì, non è mitologica come la si pensava da bambini o impossibile, a vent’anni. In TV è rappresentata, ma non raccontata. Non credo che sia per scaramanzia, con la quale è verosimile che il popolo italiano affronti questioni minori, ma non quelle centrali, cui viene dedicata un’area di riserbo. È vero invece che la morte, un destino comune e assolutamente privato, non si possa oggettivare. Una vita intera, con i suoi trionfi e le sue débâcle, donne, uomini e animali. E cose. Tutto si colora diversamente con l’ultimo viaggio.
È vero che ”la pandemia ha alterato il rapporto della nostra società con la morte.” come bene osserva D’Eramo su MicroMega, ma è proprio per l’universalità della questione che nessuno si esprime. C’è chi non aspetta altro; chi la vede lontana anche a 90 anni; chi si rende conto che non potrà mai guarirla. Per caduta, nascono riflessioni sulla vita. Con le conseguenze del caso. Ognuno potrebbe parlare per giorni su questi due soli temi, ognuno con punti di vista diversi: avendo tutti ragione. Una situazione a-dialettica difficile da sostenere in pubblico. Solo un intellettuale del calibro di Ernesto de Martino si permise di vincere il premio Viareggio nel 1958, a guerra finita da poco con il suo Morte e pianto rituale nel mondo antico, riscuotendo un inatteso successo anche di pubblico, come ci riferiscono le cronache dell’epoca.
Il potere deflagrante della morte ha effetti clamorosi nell’individuo, che può spingere il cordoglio fino a comportamenti autolesivi ma lo è ancor più per le società per intero, che troveranno un pensiero comune che supera tutte le barriere e che è condiviso. Su questo si rimodellerà il progetto di vita di ognuno con una rinnovata coscienza del valore dell’esistenza. Da qui l’elan vitale, detto da Henry Bergson, che prelude al cambiamento e “all’evoluzione universale”.
Il cambiamento atteso.